domenica 30 dicembre 2012

e parliamo di islamofobia

Vediamo le statistiche riportate sul sito dell'FBI.
Nel 2010 ci sono stati in USA 160 episodi di islamofobia. Nel 2011 ce ne sono stati 157.
Qualsiasi persona sensata parlerebbe di diminuzione.
Certo, e' sempre possibile immaginare che, visto che e' in corso un pogrom anti-islamico su scala universale, le migliaia di musulmani massacrati ogni giorno dai propri vicini ebrei e cristiani, abbiano il terrore di uscire di casa per andare a denunciare l'episodio alla polizia. 
Un terrore che non sembra essere condiviso dagli afroamericani e dagli ispanici, che non si fanno problemi a denunciare i molti hate crimes di cui loro sono vittima ogni anno (rispettivamente: piu' di duemila e piu' di cinquecento).
Insomma, al netto delle cazzate che si dicono e si scrivono in internet, dove si scrivono e si dicono molte cazzate anche contro gli evangelici e gli atei, sembra che l'allarme islamofobia sia ampiamente ingiustificato. E questa dovrebbe essere una buona notizia. 
Temo invece che non lo sara' per chi continua a credere che i musulmani siano i nuovi ebrei, e gli israeliani i nuovi nazisti. Un bizzarro cocktail vagamente religioso ammanito ogni giorno da autorevoli opinionisti atei (che detestano che gli ebrei abbiano uno Stato)
Ah, per inciso: gli hate crimes contro gli ebrei sono stati 887 nel 2010 e 771 nel 2011. Una diminuzione, certo. Ma non proprio una buona notizia. Gli ebrei infatti sono molto meno dei musulmani: negli USA ci sono probabilmente 6.7 milioni di musulmani e 5 milioni di ebrei. Ma, a quanto pare, gli USA sono un posto molto piu' sicuro per i musulmani che per gli ebrei.
Se siete di quelli che il razzismo e' razzismo e vi vantate di non fare distinzioni basate sulla fede religiosa o l'etnia delle vittime, questa dovrebbe essere una materia su cui riflettere.

domenica 23 dicembre 2012

Also spracht Bidustra - 03

Le parole hanno significati. Alcune di esse destano anche sensazioni. La parola “comunità” rientra tra queste. Comunità è intesa come “luogo caldo”, intimo, confortevole, caratterizzato da reciproca comprensione. Non sono sicuro che sia proprio così, ma diciamo che c’è un desiderio che sia così. [= sto cercando di riscrivere il vocabulario, ma sono arrivato solo alla lettera C]
  Alcuni anni fa il sociologo Zygmunt Bauman  [= per il catalogo della biblioteca sono messo ancora peggio, sono alla lettera B ] riflettendo sulla dimensione della comunità come desiderio (“Voglia di comunità”, Laterza, Roma–Bari 2001, p. 6) non ha mancato di richiamare la nostra attenzione proponendo di distinguere tra la comunità dei nostri sogni e ciò che chiama la ‘comunità realmente esistente’ specificando come con questo termine sia da intendere “una collettività che pretende di essere la comunità incarnata e che a partire da questa convinzione esige una lealtà incondizionata in cui qualsiasi altro atteggiamento è percepito come un imperdonabile atto di tradimento". “La ‘comunità realmente esistente’ – prosegue Bauman – qualora ce ne trovassimo partecipi, reclamerebbe ubbidienza assoluta in cambio dei servizi erogati o che promette di erogare”. E perciò si chiede: “Desideri la sicurezza? Cedi la tua libertà, o quanto meno buona parte di essa. Desideri la tranquillità? Non fidarti di nessuno al di fuori della comunità. Desideri la reciproca comprensione? Non parlare con gli estranei e non usare lingue straniere. Desideri provare questa piacevole sensazione di intimo ambiente familiare? Istalla un allarme alla porta e un sistema di telecamere nel giardino. Desideri l’incolumità? Non far entrare estranei ed evita a tua volta comportamenti strani e pensieri bizzarri. Desideri calore? Non avvicinarti alle finestre e non osare mai aprirne una”. E termina: “Il problema è che se si segue questo consiglio e si tengono le finestre chiuse, l’aria all’interno diventa ben presto stantia e alla fine irrespirabile”.
  E pertanto: sionisti revisionisti e religiosi, Reform, Massorti e Liberal, levatevi dalle palle che mi appestate l'aria, lo dice anche Bauman.

venerdì 21 dicembre 2012

Facendo un paio di conti, ho scoperto di aver studiato, lavorato e abitato a Milano, per una buona ventina di anni. Milano e' stata per me tante cose: l'Universita' (laurea, dottorato ecc.), l'impegno politico con anarchici e radicali, la fondazione di Lev Chadash, la prima sinagoga Reform, dove e' iniziata quella avventura che sto vivendo ancora adesso.
 Ma non ho mai amato Milano. La ho sempre trovata canagliesca e volgare, schiacchiata tra due diverse arroganze, quella della destra vincente e quella della sinistra sempre piu' snob ed elitaria. Milano e' una di quelle citta' che chi ci vive cerca sempre di andarsene da un'altra parte. Ed in effetti, facendo i conti, tutti gli amici con cui mi sono trovato meglio, ora vivono da un'altra parte. 
Detto questo, a Milano ci ho vissuto. C'e' un tipo di luce, o forse degli odori (nulla di piacevole, sia chiaro) che me la rendevano riconoscibile.  E Milano ha anche una sua colonna sonora. Non parlo solo del traffico, e nemmeno dell'accento dei milanesi. La Milano in cui sono cresciuto aveva una sua scena musicale, e non era nemmeno male. E poi c'era l'onnipresente Radiopopolare.
Radiopopolare e' una di quelle cose che, appunto, come Milano, magari la odi e ti ci incazzi, ma comunque non riesci a spengere, perche' riconosci le voci dei conduttori, e sai che si tratta di gente seria. Con enormi paraocchi ideologici e generazionali, certo. Ma la mancanza di quelle voci che ti raccontano la citta', e con molta ambizione persino il mondo, tu la senti. Mi diceva un conoscente milanese che adesso sta in California che, piu' o meno un paio di volte alla settimana lui cerca di ascoltare il notiziario di Radiopopolare, anche se sa che non sara' d'accordo e che da dove vede le cose lui, l'America e' molto diversa. Eppero' non se ne sa staccare.
Tra le trasmissioni di Radiopopolare io ho amato moltissimo La caccia: caccia all'ideologico quotidiano I conduttori erano due persone colte ed indipendenti, Felice Accame e Carlo Oliva, che cercavano di individuare i condizionamenti ideologici nelle pieghe del quotidiano, e ne svolgevano una critica puntuale, con uno stile erudito e feroce. Trovate i testi delle trasmissioni qui, e se avete voglia di leggere vi consiglio di spegnere la radio e concentrarvi nella lettura, non sono testi facili, ma sono sempre azzeccati. Accame ed Oliva hanno pubblicato pure un libro assieme e i loro nomi figurano tra i collaboratori di A Rivista anarchica. Come siano approdati da Lotta Continua agli anarchici non lo so, ma non credo sia poi cosi' importante, ormai.
Carlo Oliva e' morto lo scorso settembre, e io sono riuscito a saperlo solo ora. Avendo un poco di tempo a disposizione, mi era venuta la curiosita' di ascoltare qualche puntata de La Caccia, e ... niente, dopo un paio di click mi e' preso un magone infinito. Ho passato qualche ora a leggerne i necrologi, ho scoperto che amici ed avversari ne avevano uguale stima, e poi ho cercato una specie di testamento. Non sono riuscito a trovarlo, pero' ho trovato questo scritto, che e' probabilmente uno dei suoi ultimi. E che dedico a chi vuole votare PD. 
Io votero' altro.


LE PROPORZIONI IDEOLOGICHE DEL CAPPUCCINO 
di Carlo Oliva
Rivendicare le radici liberal-socialiste del Partito Democratico fa fino e aiuta nel rafforzarne l’immagine. Peccato che nessuno dei pensatori di quel filone abbia mai avuto niente a che fare né con il PCI né con la DC, i due partiti alle origini del PD.

Secondo Eugenio Scalfari, che ne ha scritto in uno dei raffinati elzeviri che pubblica ogni due settimane sull’“Espresso” (Cappuccino democratico, 15 marzo 2012), il Partito democratico è un po’ come un cappuccino, nel senso che è composto da due elementi da nessuno dei quali si può prescindere per la definizione dell’insieme. In effetti, omettendo il latte in quella bevanda ci resta solo un caffè e senza il caffè non si ottiene altro che latte, e allo stesso modo le componenti ex Ds ed ex Margherita sono essenziali per quel partito e solo dalla loro combinazione può sprigionarsi quel tipico aroma salvifico in cui il fondatore di “Repubblica” e buona parte dei suoi lettori confidano.
L’argomento, almeno per quanto si riferisce alla ricetta del cappuccino, è al di là di ogni possibile contestazione, anche se da uno dei più venerati maitres à pénser del giornalismo italiano ci si penserebbe autorizzati ad aspettarsi qualcosa di più. Ma in realtà Scalfari vuol dire che nessuna delle due componenti può arrogarsi un diritto di veto nei confronti dell’altra minacciando una nuova separazione e ne approfitta per esprimere la propria preferenza per un cappuccino dal sapore, diciamo così, più carico, quale lo si otterrebbe se nella formazione confluisse anche il gruppo di Vendola. L’operazione, a suo dire, rafforzerebbe il carattere liberalsocialista del partito e porrebbe le premesse per la definitiva realizzazione di quelle riforme di cui tanto il paese abbisogna.

Nemmeno un comunista o democristiano
Personalmente, su questo esito avrei qualche dubbio. Come avrei qualche perplessità sulla disinvoltura con cui, non solo da parte di Scalfari, si tende oggi ad appropriarsi del termine “liberalsocialismo”, una espressione coniata verso la metà degli anni ‘30 del secolo scorso da Carlo Rosselli per definire un programma politico e ideale che non avrebbe avuto, nei decenni successivi, una particolare fortuna. Ma a quella tradizione Scalfari è sempre stato legato e nessuno può contestargli il diritto di auspicare una sua rinascita. Anche il liberalsocialismo, nella visione rosselliana, era la sommatoria di due componenti eterogenee ma imprescindibili, quella socialista e quella liberale, ciascuna delle quali avrebbe vivificato l’altra con il proprio sistema di valori e ne avrebbe emendato i difetti. Detta così, la prospettiva può sembrare un po’ meccanica e in effetti il pensiero di Rosselli prevedeva qualche mediazione in più (aveva , in particolare, delle accentuazioni libertarie che forse potrebbero interessare ai lettori di questa rivista), ma in questi casi quel che conta è farsi capire e accontentiamoci pure.
C’è una cosa, piuttosto, che non capisco io. Scalfari, che era presente, rievoca la “lunga giornata” in cui, al Lingotto di Torino, fu fondato il nuovo partito, e ne ricorda quelli che a suo avviso ne rappresentavano i precedenti culturali e politici nella storia d’Italia. “Mi vennero in mente” scrive “Turati, Gobetti, il socialismo riformista dei fratelli Rosselli, il liberalsocialismo di Guido Calogero e infine Norberto Bobbio, Piero Calamandrei e Galante Garrone. Queste furono le patenti nobili del riformismo italiano che … segnò una traccia profonda nella cultura politica italiana … e che a mio avviso … dovrebbe rappresentare l’identità profonda del partito democratico.” Il che è ben detto ma un po’ strano perché, Turati a parte, nessuno dei nomi citati può essere ricondotto alla tradizione da cui provenivano i Ds, né tanto meno a quella della Margherita.
Nessuno di quei rispettabili signori era di scuola marxista o credeva nella dottrina sociale della Chiesa, come a dire, esprimendosi rozzamente, che non aveva nulla a che fare né con il Partito comunista né con la Democrazia cristiana, e tutti, in effetti, vissero gli sviluppi della politica italiana del dopoguerra in una posizione isolata e minoritaria, raccogliendo da parte dei militanti e dei dirigenti di quei partiti di massa e dei loro satelliti e alleati una certa indifferenza ostile e superciliosa, temperata al massimo da qualche rara e occasionale attestazione di stima.

 Maionese impazzita
Ma erano tutti dei rigoristi, secondo la miglior tradizione giacobina, e non cercavano quel tipo di consenso che si ottiene rinunciando ai propri valori di fondo. In particolare, essendo tutti, per una quantità di motivi su cui non possiamo soffermarci adesso, assertori convinti del punto di vista laico, avrebbero considerata bizzarra l’idea per cui una forza politica di sinistra avrebbe avuto qualche prospettiva di successo solo a condizione di accogliere nel proprio interno una componente ex democristiana. È probabile che se avessero sentito esprimere l’ipotesi, da esponenti quali erano di un’era prebasagliana, avrebbero invocato a gran voce la cella imbottita e la camicia di forza.
Insomma, non tutte le mescolanze sono paragonabili tra loro e chi pensasse che, in fondo, il cappuccino e il martini, in quanto entrambi composti dalla fusione di due elementi, siano la stessa cosa potrebbe subire qualche amaro disinganno. Più che di petizioni di principio e di padri nobili – che, naturalmente, ciascuno è libero di attribuirsi a piacere, tanto a chi volete che importi? – la democrazia italiana ha bisogno di riforme politiche e di attenzione ai diritti civili.
E quanto a questo, l’amalgama su cui si fonda il Partito democratico non è forse il più propizio: pensate a tutto il canaio che succede ogni volta che entrano in ballo le questioni cosiddette “di coscienza” e aspettate a vedere, per esempio, cosa succederà dopo la recente pronuncia della Cassazione sul matrimonio gay e vi renderete conto che quella organizzazione, più che a un cappuccino, rischia di somigliare a una maionese impazzita.
 Carlo Oliva

domenica 16 dicembre 2012

Also sprach Bidustra - 02

Dopo la strage di Newtown, nel Connecticut, qualcuno ha aperto una “caccia all’autistico”, [la caccia all'autistico non la ha aperta nessuno ma mi serviva un incipit] convinto che occorra sempre un “capo espiatorio” [e il migliore inizio e' sempre indicare qualcuno che ci ha le opinioni sbagliate e barbare]. Sarebbe più ovvio [dopo aver chiarito che ci sono delle teste di cazzo, io posso rifulgere passando per ovvia la mia intelligenza] concentrarsi sul fatto che ciò che è avvenuto è stato fatto da qualcuno che è parte organica della comunità. Come capita spesso il male non è “straniero”. Non c’è da guardarsi dal male in sé, ma dal male che sta dentro ciascuno di noi [Tranne dentro di me, che sto dalla parte giusta]. E’ il dato più difficile con cui confrontarsi e da assimilare [Dovete stare quindi a sentire me, che vi indico dove sta il male, e cioe' in fondo a destra, la' tra Jabotinsky e Pannella]. Non solo a Newtown. [capito mi avete?]

domenica 9 dicembre 2012

Also sprach Bidustra - 01

Inauguro qui una serie di post che serviranno a rendere comprensibile alle masse l'affascinante pensiero del faro intellettuale dell'ebraismo italiano. Iniziamo dal suo importante contributo a Moked di oggi. 

"Cresce la domanda e l’offerta di sapere nel mondo ebraico. E’ un buon segno. A me sembra che siano da adottare diversi angoli prospettici. [= Tra un poco inizia Limmud e sto cercando le scuse per non andarci]. Da una parte sta una dimensione del sapere o del fare, e dunque delle regole, dall’altra una “del vivere” dove conta ciò che gli ebrei hanno fatto nella storia concreta. [= In effetti e' meglio restarsene in Italia e prepararsi alla campagna elettorale, que viva Bersani]. Ovvero ciò che sono stati nello “scorrere del tempo”. [= Tutto cio' che di buono gli ebrei lo potevano fare, e' gia' stato fatto, e nel 1948, anzi nel 1977 la storia e' finita] In questo secondo caso ciò che occorre mettere a tema è l’esperienza vissuta [= Consideriamo, come dice Marx, non l'ebreo dello Shabbat, ma lo strozzino che dal ghetto di Francoforte controlla l'economia mondiale] che non è solo, né spesso prevalentemente, traduzione pratica di regole, ma, appunto, “storia dell’agire nel tempo” [= Ogni volta che gli ebrei hanno fatto qualcosa di buono e' stato contro quello stupido ammasso di vetuste regole religiose che va sotto il nome di ebraismo anteBidussa]. Il che significa che accanto alla dimensione ideale o culturale noi dobbiamo essere in grado di porre l’ebreo reale. [= Quindi, dicesi "ebreo reale" solo colui che milita a sinistra in Israele o preferibilmente anche in Italia"] Più precisamente un ebreo nella storia. Da questo punto di vista Yosef Hayim Yerushalmi avrebbe molto da dirci. [Sto preparando la prefazione a un altro libro, una ideale strenna natalizia per i vostri amici non ebrei che stanno nella storia e da cui dobbiamo imparare. Altro che Limmud.]"

giovedì 6 dicembre 2012


Io trovo divertenti quelli di Mondoweiss.

Sognano intensamente il momento in cui gli ebrei americani diventeranno ostili ad Israele. Lo sognano talmente tanto da vedere indizi anche dove non ci sono.  Scrivevano entusiasti due giorni orsono:

Let’s congratulate the Rabbis and lay leaders of Congregation B’nai Jeshurun in New York City for their email giving a thumbs up for the United Nations vote on Palestine. 
e
the New York Times devoted a lengthy article on its front page to the fact that leaders of B'nai Jeshurun, a legendary liberal synagogue on the Upper West Side with Zionist commitment, sent out an email applauding Palestine's new nonmember state status

ed ecco, oggi, la doccia fredda:

Prominent NY synagogue’s rabbis regret email that supported UN vote

Poverini, loro ci credono veramente Nelle loro fantasie si apre prima un dibattito di massa le cui conclusioni sono gia' scritte, ovvero che il sionismo e' inutile per gli ebrei e pericoloso per il mondo.

Americans have a right to know why so many American Jews believe in the need for Israel at a time when this concept is warping our foreign policy  [il problema e' che] The acknowledgment of Jewish prominence in the Establishment, and of the power of Zionism, would make a lot of Jews uncomfortable, so the conversation is verboten

Capite? Se non fosse per via di questo controllo sionista dei media, sarebbe gia' iniziata la  campagna di massa che portera' ad isolare Israele, aprendo la strada a uno Stato unico.

Purtroppo il momento e' di nuovo rinviato.

Se vogliono, quelli di Mondoweiss possono consolarsi con il ricordo di una vera campagna di massa che porto' gli ebrei americani ad influire sulla politica di Washington e su quella mondiale. Ma sono pagine di cui parlano malvolentieri. E si' che oggi e' anche un anniversario.

How We Freed Soviet Jewry. Twenty-five years ago today, a rally of 250,000 people changed the fate of Jews worldwide.



martedì 4 dicembre 2012

Per via della influenza galoppante, ieri ho lasciato a meta' il post, ed ecco qui -quindi- la seconda parte. 

Riconosco pezzi del nahum che potevo essere, e che per fortuna non sono diventato, dentro persone che, come me, hanno un passato universitario ed attualmente (al contrario di me) dentro le facolta' umanistiche italiane o nel sottobosco editoriale. 

Riconosco i memi, gli automatismi, che fanno parte della loro visione del mondo. Uno e' quello degli ipposti estremismi. Ci sono fondamentalisti islamici che massacrano i cristiani? Bhe, da qualche altra parte ci devono essere fondamentalisti cristiani ugualmente pericolosi. E se non ci sono in realta', l'intellettuale te li trova in potenza (viene alla mente il personaggio di Don Ferrante....)

Questo significa mettere sullo stesso piano un gruppo di esaltati della Bible Belt e l'esercito dei talebani. E' una offesa al buon senso ed alle vittime, ma soddisfa il bilancino interiore dell'intellettuale italico, che come Don Ferrante se ne va a letto, certo che la peste islamista non lo tocchera'. Intanto i suoi colleghi di lingua araba vengono sbudellati in Medio Oriente, e allegri tutti che e' primavera. 

Non e' che l'intellettuale italiano sia un adepto dell'islamo-marxismo alla George Galloway. Quelli sono i suoi colleghi inglesi, che lavorano in facolta' lautamente sponsorizzate dai despoti arabi. In Italia quei soldi non arrivano. E non c'e' nemmeno il senso di colpa post-coloniale che impedisce agli intellettuali inglesi di riconoscere vessazioni delle donne quando ci sono vessazioni delle donne, se le donne vessate e gli aguzzini hanno la pelle piu' scura della loro. No, in Italia domina  piuttosto questo riflesso condizionato a cercare sempre il bilanciamento, non tanto per giustificare l'islamismo, ma per  giustificare la propria apatia, il proprio starsene fuori da ogni disputa, e continuare a elargire perle di sapienza tardo-marxista. 

Questo atteggiamento si basa sulla convinzione (roba simile a una setta religiosa, in effetti) di conoscere in che direzione evolvera', o dovrebbe evolvere la storia - non verso una societa' senza classi, ma verso un mondo senza appartenenze, o meglio in cui l'appartenenza alla classe degli intellettuali dara' il diritto di dettare legge sulla vita degli altri, i rozzi, i primitivi ed i tribali. 

Tale e tanta e' la presunzione di conoscere le regole del gioco, che gli intellettuali di sinistra si nominano arbitri elegantiarum di quel che circola nel campo avverso. "Questa destra e' caciarona ed impresentabile". Perche', se avessero un eloquio piu' forbito, tu li voteresti? "Questo governo israeliano e' criminale" Perche',. ce ne e' mai stato uno, di governo israeliano, che ti andasse bene? 

Vorrei che sia chiaro, parlo per esperienza diretta, queste sono robe che ho detto e scritto anche io. Anche io ho gioito quando Montanelli si e' unito al campo anti-berlusconiano, tutto ad un tratto il Sor Cilindro, era diventato un eroe, esponente di una destra presentabile lungamente cercata. Ma dove? Ma quando? La si era cercata? Erano domande che nemmeno mi passavano per la testa. Me le faccio ora, che da quel campo sono fuori, e che mi lambicco su come e perche' il Pirke Avot ti consiglia di non stare troppo vicino ai rashaa, termine ebraico che solo superficialmente si traduce come "malvagi". In realta', termine centrale nella storia di Korah, che sta nel libro dei Numeri e che racconta di questo capopopolo che monta una ribellione contro Mose', e il Midrash spiega che se ne andava a raccontare di conoscere meglio di tutti in che direzione stava evolvendo la storia (perche'? Beh, perche' lui apparteneva alla casta degli eruditi). 

Qualcuno, non mi ricordo piu' chi, ha detto che con la caduta del muro di Berlino, l'idea di una societa' senza classi, si e' fatta nubolosa, e' stata spinta nel regno dei sogni, mentre prima sembrava dietro l'angolo, anche ai comunisti che di sovietico avevano poco (un genere di comunisti sovra-rappresentato nelle facolta' umanistiche italiane). E tra i detriti della Guerra Fredda, anche a generazioni di distanza, ci sono pure gli intellettuali italiani, allievi degli allievi di professori comunisti, che girano tra dipartimenti e seminari, con poco tempo per gli studenti e molto per raccontare all'universo mondo che hanno ragione loro. 

Ora, il poco tempo per gli studenti  e' una schifezza. Ho studiato in un college americano e in una universita' inglese, il docente c'e' sempre, nell'orario di ricevimento o eventualmente su skype. Gli esami sono scritti e il docente legge e corregge le due versioni del tuo elaborato. Altro che i venti minuti in cui io chiedevo qualcosa, tratto da un libro per le scuole superiori, sulla pace di Lodi (e/o sulla Riforma anglicana), qualcosa sulla crisi del seicento, qualcosa sulla rivoluzione francese (e/o illuminismo; e/o rivoluzione americana) prima di far passare lo studente alla seconda parte, dove il voto veniva comunque tirato su di un paio di punti, perche' senno' (oh grazie, riforma Berlinguer) si vanno a iscrivere in una altra universita', a venti km da qui. 

Fosse per me, lo dicevo allora e lo ripeto qui, lo studente dovrebbe presentare un elaborato di una decina di pagine su un argomento a caso tra quelli sopra, compreso un paragrafo di storia locale (la crisi del seicento nel mantovano; la riforma anglicana nel pensiero degli esuli italiani; la rivoluzione americana e gli illuministi milanesi) e il professore o uno dei numerosi assistenti dovrebbe accompagnare lo studente in biblioteca, qui ci sono i testi piu' importanti, questa che vede in fondo e' la bibliografia, quelle sono le riviste, ci vediamo tra due settimane e buon lavoro. Si eviterebbe il panico da pagina bianca che prende gli studenti quando iniziano a scrivere la tesi. Ma per arrivare a quel punto, dovresti levare dalle ambizioni dei docenti italiani la aspirazione a spiegare TUTTA la storia, che li ha portati a scegliere e spesso a scrivere quel sussidiario (che non si vende piu' alle superiori ma all'universita' ha ancora mercato). 

E cosi', mentre la fine del comunismo ha allargato a dismisura l'ego degli intellettuali italiani, e' successo che e' andata perduta la parte piu' importante del loro profilo. Gli intellettuali italiani non hanno piu' capacita' di introspezione. Potete dire quel che volete sulla psicoanalisi, resta secondo me un formidabile strumento di lettura di te e delle tue opinioni e passioni, ti isegna che se reagisci in un dato modo a una data persona, e' perche' tu e quella persona avete qualcosa in comune. Fateci caso, gli intellettuali italiani hanno abbandonato la psicoanalisi. Hanno abbandonato, in genere, la attitudine a considerare se' stessi con spirito critico, a riconoscere quelle parti del proprio pensiero che provengono da ideologie ed educazione, o condizione di classe se vi piace il marxismo. Continuano pero' a sentenziare sul mondo, pensando che il mondo prima o poi dara' ragione a loro, perche' loro hanno ragione. 

Come sono contento di esserne lontano. 


Mi sono trovato a dover spiegare  a una mia conoscenza cosa non va nella Universita' italiana e perche' sono contento di starne lontano (dopo dottorato, postdottorato ecc.). Copincollo, con qualche aggiunta

Come in ogni Paese del mondo, nella Universita' italiana si entra se hai un maestro, ovvero se la tua tesi e' piaciuta a qualche luminare, che decide di coltivare il tuo talento promettendoti che prima o poi ti arrivera' uno stipendio e facendoti entrare in qualche programma di dottorato. Dove qualcosa cominci a guadagnare: nel mondo dei sogni, in cui vengono premiati i capaci e meritevoli, guadagni poco meno di un insegnante di scuola superiore senza scatti di anzianita'; ti va bene e ti basta, perche' hai passione, perche' vedi un qualche posto in un futuro e perche' la fidanzata, se ce la hai, e' molto paziente. Fin qui, nulla di scandaloso. Nulla di scandaloso, voglio dire, nel dipendere dalle ubbie di un luminare, che magari lascia per strada persone intelligenti ma antipatiche (a lui). La ricerca scientifica e' fatta anche di relazioni personali.

Il problema e' cosa succede una volta varcata quella soglia, nel percorso che porta alla cattedra e allo stipendio. Idealmente parlando dovrebbe essere un percorso senza interruzioni. In Italia si va in cattedra tramite concorsi, e ai concorsi conta il punteggio che hai accumulato: in base a quel punteggio vieni ammesso al colloquio. Per ragioni lungamente precedenti la riforma Berlinguer, ma che la riforma ha aggravato, in Italia il punteggio si calcola non in base alla qualita' delle pubblicazioni, ma in base alla quantita'. Nella mia permanenza dentro l'Universita' italiana ho visto libri pubblicati su internet e rapidamente scomparsi dopo il concorso che ha portato in cattedra l'autore (che evidentemente non era molto contento che si andasse a leggere il suo libro); verbali di concorso (poi corretti) in cui i dati bibliografici erano sbagliati (e cioe' i commissari manco avevano letto i libri), candidati che prima del colloquio facevano due o tre ricorsi preventivi al TAR giusto per intimidire gli altri candidati. E cosi' via. E la disciplina di cui mi occupavo aveva solo marginalmente a che fare con i poteri forti: il massimo che puo' capitare a uno storico e' di vedere il suo saggio pubblicato in una strenna, a cura di una banca; o in un volume pubblicato dall'assessorato alla cultura in occasione del restauro di qualche abbazia. Economisti e chimici farnaceutici hanno in ballo anche altri interessi, e probabilmente fronteggiano altre pressioni.

 Ovviamente non basta accumulare titoli, bisogna anche farli circolare. E cosi', un fattore che aiuta la carriera sono le recensioni, che pero' non hanno nulla a che fare con il valore del libro in se', ma fanno piuttosto parte di un sofisticato gioco di scambi (uno della tua cordata recensisce positivamente il tuo libro, e tu, o un tuo collega, fara' lo stesso con il suo). Un modo sicuro per accumulare buone recensioni e' pubblicare in un volume collettaneo, per solito gli atti di un convegno, a cui tu, e esponenti di altre cordate equamente rappresentati, siete stati invitati da organizzatori che avevano gia' in mente il volume degli atti, e calcolavano quindi il numero degli interventi ammessi (che stampare venti pagine in piu' costa). Occasioni per i convegni sono a volte i restauri di cui sopra

In tali convegni, il dibattito (nel senso di confronto tra punti di vista differenti) e' ovviamente assente. Nessuno si arrischia a scardinare il sofisticato gioco tarantiniano delle future recensioni; e cosi' c'e' la liberta' di dire le castronerie piu' grosse, senza che alcuno te lo faccia notare.

Esclusa quindi la possibilita' di dibattere con quelli di cordate differenti, resterebbe aperta la possibilita' di dibattere con quelli della tua, di cordata. E pero' qui entra in ballo la burocrazia sommata all'eta', due fattori che portano al noto fenomeno dell' asino in cattedra. E cioe' ci sono baroni [=docenti universitari di lunga esperienza politica, che stanno dal decenni al vertice della carriera, e non pubblicano piu' nulla perche' nessuno li smuove] che manifestano il loro potere facendo si' che i meno brillanti e piu' stupidi dei loro allievi facciano carriera meglio degli allievi degli altri baroni. La moltiplicazione delle cattedre avvenuta con la riforma Berlinguer ha accresciuto il fenomeno in maniera parossisitica, sicche' se ai miei tempi  era gia' raro che, poniamo, un docente cattolico decidesse di investire su di un allievo ebreo (e' successo a me) sfidando pregiudizi e cordate, adesso questo e' del tutto impossibile e gli allievi sono fotocopie ideologiche delle posizioni dei loro maestri

Per cui no, l'Universita' italiana non e' il luogo in cui si impara a dibattere con rispetto delle posizioni del tuo interlocutore. Se va bene, impari a sopravvivere in una atmosfera claustrofobica e clientelare. E restringi il numero delle tue frequentazioni. Voglio dire che finisci per frequentare o persone che fanno il tuo stesso identico lavoro, sperando in questo modo di ottenere quelle informazioni e conoscenze che ti serviranno in vista del prossimo concorso. Quelle piu' che amicizie sono parte della rete di conoscenze che ti e' indispensabile creare. A cui si aggiungono, ma e' il caso meno comune, anche persone che con il tuo lavoro non c'entrano assolutamente nulla, perche' ti puoi fidare solo di persone che sono fuori dal tuo ambiente, e che se sei incazzato o su di giri non possono in alcun modo pensare che questo ha a che fare con la composizione della commissione di concorso.

Frequentando solo persone simili a  te (o totalmente opposte, e solo perche' sono totalmente opposte) succede che ti sclerotizzi. Finisci per parlare lo stesso linguaggio che parlano i membri della tua tribu' e a inanellare delle serie di memi che prendono il posto dei ragionamenti articolati. Uno di questi memi era, ai miei tempi, che siccome c'e' la globalizzazione, la gente si rifugia nelle identita'. Lo ho scritto in una riga, ma ci si potevano scrivere papelli, tracce di convegni, lettere al manifesto, editoriali di repubblica, e programmi di cineforum. Per via di questo intruppamento tribale, l'universitario, o aspirante tale, ha perso la capacita' di interrogare se' stesso.

Avete presente quando la Lega Lombarda vinse le elezioni la prima volta? Tutti i giornalisti e gli opinionisti erano scandalizzati e preoccupati. Ma come, ci e' cresciuto questo movimento in casa e noi non ce ne siamo nemmeno accorti? La ragione e' semplice: i giornalisti all'epoca viaggiavano in prima classe. E i discorsi che giravano tra i pendolari, che viaggiavano in seconda. non li sentivano nemmeno. Ecco, agli universitari succede lo stesso fenomeno. Nel secolo scorso, quando c'era il Partito Comunista Italiano, il professore universitario incontrava in sezione l'operaio o l'insegnante. Ora non succede piu'. Ma nel frattempo il professore universitario ha sviluppato una spropositata concezione di se', siccome lui conosce i memi di cui sopra e li puo' anche motivare. E cosi' abbiamo il dottorando, o post dottorando, che sta davanti allo schermo del computer a elargire perle di sapienza lette sulle pagine del manifesto a cui lui mette le note a margine che derivano dalla sua disciplina, e che servono a convincere lui, e i lettori come lui, che loro hanno ragione perche' riescono a vedere il mondo dal punto di vista di Dio o della storia universale e che il resto del mondo ha torto, e' volgare e tribale ed anzi si lava pure poco.

C'e' poi la questione dell'uovo e della gallina. E' vero che le professioni intellettuali hanno perso status sociale. Il sistema universitario italiano scoraggia le innovazioni: "non possiamo creare una cattedra di informatica applicata alle materie umanistiche, poi arriva un laureato in matematica e se la prende e chi lo controlla il laureato in matematica?". Ma anche la totale incapacita' degli intellettuali italiani di capire come va il mondo e, nel contempo, di tenersi stretto il ruolo (e la paga) di editorialista su questo o quel quotidiano, non e' che abbia dato lustro alla categoria. E, tra l'altro, gli italiani leggono poco i quotidiani, perche' leggendo i quotidiani non riescono a capire dove sta la ragione del contendere tra Israele e Palestina, ma solo che tutti e due sono invischiati in una guerra di identita' religiose. Come te, elettore leghista e tonto.

E pertanto io sono piuttosto contento di trovarmi in questo momento a destreggiarmi tra il daf yomi e la pagina facebook di una sinagoga, cui sto lavorando nel tempo libero. In un universo parallelo, davanti allo schermo del computer, con una tazza di caffe' sulla scrivania ci sta un altro nahum, quello che non sono diventato. Sta leggendo il manifesto e haaretz, dopo aver passato tutta la giornata a controllare se nelle note del suo saggio sono stati citati tutti, ma proprio tutti, i nomi dei colleghi che sono un grado piu' avanti di lui e che saranno nella commissione d'esame. Il saggio tocca anche qualche dibattito importante, di quelli che hanno avuto corso nel passato, ma questo nahum sta bene attento a non prendere posizione. Chiuso il saggio, apre il manifesto dove legge che gli unici ebrei buoni sono quelli che criticano lo Stato ebraico, che anzi sarebbe una buona idea se non ci fosse del tutto. E l'antisemitismo e' male. E siccome tu hai ragione non puoi essere antisemita. E' colpa loro, degli israeliani e della loro eccessiva identita'.

Sono contento di aver lasciato quel nahum dentro la sua bolla di parole, che lui immagina grande come il mondo e che e' invece solo uno specchio in cui riflettersi e dirsi da solo quanto e' bravo e quanto lui (e quelli della sua classe sociale) hanno ragione su tutto.